martedì 8 maggio 2007

Il paradosso di me stesso


Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d'oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d'ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli piú. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest'albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest'albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
L'ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all'alba, perché ora voglio serbare lo spirito cosí, fresco d'alba, con tutte le cose come appena si scoprono che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d'acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere piú larga e chiara nella grana d'ombra ancora notturna, quella verde piaga di cielo. E qua questi fili d'erba, teneri d'acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. E quell'asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma senza stupore a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraie qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l'aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com'è, che savviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere piú nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Cosí soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero sí metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.
La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non piú dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei. Pensa alla morte, a pregare. C'è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l'ho piú questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori.

L.Pirandello ( Uno nessuno e centomila )



Questione d'identità, questione imbarazzante, a volte dolce, spesso terribile, a tratti nausente.
Contarsi quante volte durante il giorno mutiamo in silenzio il nostro essere, il nostro codice geneticamente modificato se pensiamo un solo attimo come gli altri ci vedono, cosa pensano di noi, qualsiasi idea o sentimento provano nei nostri confronti.
Un prolifarare continuo di forme vane, senza forma, distruzione del senso comune, dei buoni propositi, reazione e rigenerazione delle cose, illusione di possedere un proprio io ma che non si riconosce in se stesso.
Un gesto strano, inconsueto,paradosso di me stesso fuori e dentro di me.

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BLOGGARSI BLOGGAMENTE

Ogni mio pensiero apparterà a questo blog: spazio conquistato tra le mie paure e le mie incertezze. Scoprirsi in silenzio, dove nessuno mi conosce. Un velo leggero: confine labile tra il mio essere e il mio non essere. Condizione necessaria per sentirmi bloggato.